Domande e risposte
SU RINNOVABILI ED ENERGIA
IN SARDEGNA

La Sardegna è la regione con il più alto tasso di emissioni di CO2 pro capite, con una produzione energetica e industriale incentrata su carbone, derivati del petrolio e, negli ultimi anni, anche gas: le maggiori cause della crisi climatica e della siccità che viviamo oggi. Ma la Sardegna ha anche una enorme potenzialità per le energie rinnovabili ed è quindi una fra le Regioni con la maggiore convenienza a transitare direttamente ad un sistema energetico moderno e totalmente decarbonizzato, che le consentirebbe di diventare energeticamente autonoma. Qui rispondiamo a tutte le vostre domande su rinnovabili ed energia in Sardegna.

Le fonti energetiche rinnovabili rappresentano uno dei capisaldi della transizione energetica per contrastare il cambiamento climatico che è causato proprio dall’uso delle fonti fossili dalla cui combustione si liberano, appunto, gas ad effetto serra come la CO2 che, accumulandosi nell’atmosfera, provocano l’innalzamento delle temperature globali con impatti enormi sugli ecosistemi naturali (con perdita di biodiversità, distruzione di habitat, ecc.) ma anche con gravissimi danni, diretti e indiretti, alla specie umana e ai suoi stessi sistemi sociali ed economici. Le rinnovabili permettono di produrre energia senza gli effetti negativi della combustione: CO2 e inquinamento e riducono anche la dipendenza dai paesi produttori di combustibili fossili che sono notoriamente altamente instabili da un punto di vista geopolitico. Gli impianti da fonti rinnovabili non producono energia in modo continuo e vanno perciò affiancati da diversificati sistemi di accumulo dell’energia; anche la rete elettrica dovrà essere adeguata a questo nuovo modo di produrre energia migliorando le interconnessioni a breve e a lunga distanza.

No! Si legge spesso che sulla Regione Sardegna graverebbero quasi 60 GW di progetti a fonti rinnovabili (soprattutto fotovoltaico ed eolico) ma questo dato va letto in modo corretto visto che si tratta di progetti presentati dalle aziende energetiche nell’arco di molti anni e che non sono stati mai esaminati. Nei fatti, solo una frazione limitata di questi vedrà veramente la luce dopo l’esame che si svolge durante il procedimento autorizzativo che prevede, tra l’altro una attenta verifica della compatibilità ambientale e paesaggistica. In realtà, l’attuale burden sharing (l’assegnazione a ogni regione di quanti GW di rinnovabili deve installare) prevede la necessità di realizzare in Sardegna, entro il 2030, circa 6,2 GW di impianti di energia rinnovabile (cioè quasi 10 volte di meno dei progetti di cui si parla). Questo valore consentirà (insieme alla realizzazione di nuove interconnessioni elettriche e di sistemi di accumulo) di disporre di energia senza bruciare né carbone né altri combustibili fossili. Una simile potenza installata, nel caso si trattasse di fotovoltaico, occuperebbe meno dello 0,4% della superfice dell’isola, e ancor meno con il contributo dell’eolico. Anche quando raggiungeremo la neutralità climatica nel 2050, la quota di fonti energetiche rinnovabili (FER) pur maggiore, come indicato dalla Strategia di lungo termine (LTS) comporterà una occupazione del territorio decisamente irrisoria.

Nel 2020 (anno pandemia e chiusure) il dato era di 9 tonnellate pro capite/anno (https://italyforclimate.org/ranking-regioni-2022-le-emissioni-pro-capite-di-co2/) contro una media nazionale di 4,9; nel 2021 si parla di 11 tonnellate/anno pro capite (https://italyforclimate.org/ciro-database-regioni-clima/sardegna/#indicatore=emissioni-procapite) contro una media nazionale di 7 e questo malgrado i consumi energetici pro capite sull’isola non siano particolarmente alti, ma quello che pesa è soprattutto il mix energetico che vede circa il 75% dell’energia prodotta ancora con il carbone e derivati del petrolio che hanno una intensità di carbonio molto alta.

Falso! Oltre alle rinnovabili, si stanno sviluppando diversi sistemi di accumulo e potenziando le interconnessioni con le altre regioni che consentono di mettere in sicurezza la rete elettrica sarda svolgendo quella funzione di stabilizzazione che oggi svolgono le centrali termoelettriche. Numerosi studi dimostrano infatti come si possa fare a meno delle fonti fossili sostituendole con le rinnovabili, una volta adeguate le interconnessioni con il resto della rete italiana. Ma occorre fare in modo che si possano sviluppare con regole chiare e coerenti con gli obiettivi che occorre raggiungere e, ovviamente, devono essere accompagnate dal simultaneo sviluppo dei sistemi di accumulo (elettrochimico, le batterie, idroelettrico, con idrogeno verde, ecc.) per coprire sia le fluttuazioni giornaliere sia quelle stagionali come evidenzia la stessa pianificazione di Terna. Reti che non servono ad alimentare l’Italia con l’energia sarda ma a garantire la stabilità della rete nazionale nel suo complesso. Le interconnessioni servono, infatti, ad assicurare che ci sia energia sempre disponibile là dove serve con uno scambio dinamico da e per l’isola.

Vero! Un ampio numero di studi e rapporti sia nazionali sia internazionali evidenzia come lo sviluppo delle rinnovabili sia accompagnato da importanti benefici in termini occupazionali ed economici. Questo è ancora più vero per paesi come l’Italia, o per regioni come la Sardegna, che non hanno riserve di fonti fossili ma devono importarle, al contrario di sole e vento che invece non mancano. Secondo uno studio di Elettricità Futura, Enel Foundation e Althesys si stima che se si realizzasse il Piano 2030 del settore elettrico elaborato da Elettricità Futura (che prevede per l’Italia nuovi 85GW di FER entro il 2030 arrivando a coprire l’84% del mix elettrico) si avrebbero a livello nazionale “oltre 360 miliardi di euro di benefici economici, in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, con 540.000 nuovi posti di lavoro nel settore elettrico e nella sua filiera industriale nel 2030, che si aggiungeranno ai circa 120.000 di oggi”. https://www.elettricitafutura.it/News-/Comunicati-Stampa/Piano-2030-del-settore-elettrico-360-miliardi-di-benefici-economici-e-540-000-nuovi-posti-di-lavoro-in-Italia_4972.html

Falso!  Proviamo a fare chiarezza: la Sardegna (dati ufficiali Terna per anno 2022) ha una richiesta (consumo) di energia elettrica di circa 8.922 GWh a fronte di una produzione superiore ai 12.000 GWh, quindi sembrerebbe vero che produca più di quanto consuma (+39,2%); peccato che questi dati non evidenziano come nel 2022 in Sardegna oltre 9.200 GWh siano stati prodotti dal settore termoelettrico (vale a dire da carbone e derivati del petrolio) che dovrà essere dismesso con la decarbonizzazione. Inoltre, da qui al 2030, e poi al 2050, molti consumi energetici, come quelli legati ai trasporti o al riscaldamento degli edifici, che oggi sono completamente basati sui combustibili fossili, dovranno diventare consumi elettrici per raggiungere la neutralità climatica. Usare l’argomento che la regione produce oggi più di quanto consuma è fuorviante dal momento che, non solo la ridondante quota di fonte fossile dovrà essere rapidamente abbandonata a favore delle rinnovabili, nell’indispensabile processo di transizione energetica, ma non tiene neanche conto della necessità tecnica di un' isola, di avere una certa quota di riserva auspicabilmente anche da stoccare in diversificati sistemi di accumulo (idrogeno verde incluso). La data per l’uscita dal carbone, fissata dalla strategia energetica nazionale e dai Piani Energia Clima, è il 2025, cioè il prossimo anno. Per la Sardegna è previsto un limitato ritardo (2028) dovuto alla necessità di completare il cavo di collegamento dell’energia con la Sicilia. Non sono dunque scenari futuri. Chi oggi si oppone alla realizzazione delle rinnovabili e all’ammodernamento dell’interconnessione con l’Italia vuole che la Sardegna non abbandoni le fonti fossili.

I cavi sottomarini servono sia a esportare energia verso il continente sia ad importarla, si tratta infatti di un sistema a doppio senso e costituiranno sempre più uno strumento indispensabile nei sistemi energetici del futuro (quindi non solo quelli che riguardano la Sardegna) che dovranno essere sempre più interconnessi in modo, appunto, da poter scambiare in tempo reale energia elettrica da una zona all’altra mantenendo in equilibrio la rete compensando le variazioni di produzione e consumo locali.

Le procedure autorizzative variano molto in funzione, ad esempio, delle dimensioni/potenza degli impianti. Gli stessi cambiamenti normativi introdotti negli ultimi anni alle volte, invece di semplificare le procedure, hanno finito per complicarle o, comunque, a non facilitare le cose. La recente proposta di testo unico sulle FER (Fonti Energetiche Rinnovabili) modifica ancora le soglie di potenza in base alle quali si accede ad una procedura autorizzativa piuttosto che ad un'altra, e cambia anche il soggetto pubblico incaricato del rilascio della cosiddetta Autorizzazione Unica che, sotto una certa soglia di potenza, sarà di competenza regionale e sopra invece ministeriale (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica). Anche la parallela verifica di assoggettabilità a VIA o la stessa Valutazione d’Impatto Ambientale possono essere di competenza regionale o nazionale a seconda delle soglie di potenza le quali, attualmente, sono in fase di modifica normativa.

Sono rarissimi i casi di esproprio e non vengono mai fatti dagli operatori energetici ma dalle pubbliche amministrazioni. L’esproprio è un atto delicato che richiede alcune importanti precondizioni di base, ad iniziare dal fatto che l’opera/infrastruttura debba essere dichiarata di pubblica utilità (pubblico interesse) dall’amministrazione competente. Ad esempio, potrebbe non bastare il fatto che le rinnovabili siano considerate in modo molto generico di pubblico interesse, potrebbe anche essere necessario che le aree individuate siano state preventivamente inserite in una zonizzazione (ad esempio un piano regolatore) che le destini a tale scopo. Generalmente gli impianti li realizzano le aziende energetiche (normalmente soggetti privati e non le amministrazioni che potrebbero fare gli espropri) e queste hanno tutto l’interesse a non sollevare un contenzioso legale; preferiscono piuttosto trovare accordi preventivi con i proprietari dei terreni remunerando  i proprietari. Al contrario, assistiamo a sistematici espropri per opere legate alle infrastrutture a fonti fossili (es. rigassificatori, gasdotti, ecc.) ma su questo spesso non sembra vi sia grande attenzione.

Falso! I numeri lo dimostrano, in quanto la superficie agricola che potrebbe essere interessata dalle rinnovabili (in particolare dal fotovoltaico) sarebbe una piccola frazione, magari inferiore a quella che ogni anno viene sottratta dalla realizzazione di altre opere e attività antropiche. Per dare qualche numero, citando i dati di un recente rapporto di Elettricità Futura, che parla di sviluppare 85 GW di nuova capacità rinnovabile entro il 2030 (per conseguire i target EU di decarbonizzazione), questo comporterebbe l’occupazione di circa lo 0,6 della superficie agricola nazionale. E in realtà occorrerebbe anche tenere conto, che sui terreni agricoli (secondo la normativa vigente) si possono realizzare solo impianti agrivoltaici che nascono proprio per integrarsi sinergicamente con le colture agricole e non per sostituirsi ad esse. Piuttosto andrebbe maggiormente posta attenzione a quanto spazio fisico toglie il cambiamento climatico all'agricoltura: si pensi ad esempio agli impatti di siccità e alluvioni che si alternano in modo devastante e sempre più frequente. O anche si potrebbe fare il confronto tra quanta superficie di terra serve in Europa per coltivare i biocarburanti utilizzati nei motori endotermici delle auto tradizionali rispetto a quanta ne occorrerebbe per alimentare le auto elettriche con pannelli fotovoltaici: nel primo caso si userebbero 5,1 milioni di ettari, nel secondo servono solo 0,133 milioni. In pratica, con i pannelli fotovoltaici si occuperebbe solo il 2,5% della superfice usata per coltivare i biofuels (IFEU, The Carbon and Food Opportunity Costs of Biofuels in the EU27 plus the UK. Heidelberg, 2023).

 Il punto è avere chiaro su quali tipologie di terreni si va a realizzare gli impianti, se questi sono oggetto di pratiche agricole, magari anche di pregio, l’agrivoltaico è sicuramente la scelta migliore,

perché rappresenta la soluzione ideale per far coesistere molteplici colture agricole con la produzione di energia fotovoltaica. L’agrivoltaico nasce con lo scopo di essere sinergico alle coltivazioni e, infatti, viene progettato in modo diverso a seconda del tipo di colture con le quali deve convivere e di cui può migliorare le stesse rese agricole. Non tutte le colture agricole sono indicate per questa coesistenza, ma molte ne traggono ampio beneficio. Se invece si parla di terreni per così dire marginali l’installazione di impianti fotovoltaici tradizionali a terra potrebbe essere preferibile non solo per i minori costi complessivi, ma anche per il minore uso di materiali per realizzare gli impianti.

Le aree idonee per le fonti rinnovabili sono quelle aree in cui deve essere previsto un iter autorizzativo semplificato per la realizzazione degli impianti a fonti rinnovabili, ossia quelle aree che, per caratteristiche o minor valore ambientale, sono adeguate alla dislocazione di impianti eolici o fotovoltaici. In queste aree la costruzione ed esercizio degli impianti rinnovabili non necessita del ricorso alle procedure ordinarie, ad iniziare dalla Valutazione di Impatto Ambientale. Questo le distingue dalle aree ordinarie, ossia intermedie tra quelle idonee e quelle non idonee (in cui è preclusa del tutto la possibilità di realizzare impianti di taglia industriale), dove invece occorre espletare le normali procedure (dalla Valutazione di Impatto Ambientale alla Valutazione di Incidenza, se si fosse nelle pertinenze di un sito della Rete Natura 2000, ecc.).

Adottando una metodologia che tiene conto della produzione di CO2 durante l’intero ciclo di vita (LCA) delle differenti fonti di energia, emerge come le rinnovabili siano enormemente meno dannose per l'ambiente rispetto ai combustibili fossili, come è possibile vedere dalla seguente figura tratta dal report WWF “Nature-safe Energy: Linking energy and nature to tackle the climate and biodiversity crises” (April 2023)

Le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) sono uno strumento fondamentale per avvicinare le persone ad un uso più sostenibile e responsabile dell’energia. Sono utili nella rigenerazione urbana e per combattere la povertà energetica. Queste, infatti, consentono ai cittadini di produrre e condividere energia ottenuta da fonti energetiche rinnovabili assumendo anche il cosiddetto ruolo di prosumer (produttore-consumatore). Le CER, nell’avvicinare le persone ad un uso responsabile e consapevole dell’energia, svolgono non solo una funzione ambientale positiva, ma anche sociale ed economica. Ma nonostante gli innegabili benefici occorre evidenziare come le CER da sole non siano sufficienti a consentire la transizione energetica. Le comunità energetiche possono, infatti, realizzare impianti rinnovabili di potenza ridotta (meno di 1MW) e, seppur giocano un ruolo fondamentale nel consentire ai cittadini, alle piccole comunità, e aziende di liberarsi dall’uso delle fonti fossili, per poter effettuare la transizione di tutto il sistema energetico occorrono anche gli impianti di grandi dimensioni (utility scale), gli unici in grado di alimentare le grandi aziende, i sistemi di trasporto ferroviario, ecc. Si tratta cioè di sistemi assolutamente complementari e sinergici che devono essere sviluppati in parallelo accompagnandoli da diversificati sistemi di accumulo e dal potenziamento delle reti elettriche.

Gli impianti eolici potrebbero avere un impatto sull’avifauna e sulla chirotterofauna (i pipistrelli). Per tale motivo è importante che si individuino correttamente i siti nei quali realizzare gli impianti, e che siano condotti rigorosi studi di impatto ambientale a supporto dei progetti. Esistono poi numerosi studi che indicano le azioni possibili per mitigare gli impatti: ad esempio le Linee guida IUCN (Mitigating biodiversity impacts associated with solar and wind energy development). Altri lavori (R.May et.al. Paint it black: Efficacy of increased wind turbine rotor bladevisibility to reduce avian fatalities. February 2020) avevano evidenziato come fosse possibile ridurre di oltre il 70% le collisioni con l’avifauna colorando di nero una delle tre pale delle turbine. E’ inoltre possibile usare i radar per individuare l’avvicinarsi di stormi in migrazione e arrestare le pale al loro passaggio. Insomma, la tecnologia può aiutare molto a mitigare gli impatti, ma altrettanto vale per la corretta pianificazione e collocazione spaziale delle macchine.

Quando si parla di impianti eolici offshore (in mare), occorre distinguere tra quelli fissi e quelli galleggianti: i primi sono collocati su fondali non troppo profondi, spesso a ridosso delle coste (questo dipende da quanto è profondo il mare), i secondi invece possono essere collocati anche a notevoli distanze (spesso decine di chilometri) dalla costa su fondali profondi anche diverse centinaia di metri. È evidente che le tipologie di impatti cambiano sensibilmente sia in funzione del tipo di impianti sia della loro collocazione. Per esempio, il tipo di impatto sui fondali è diverso se si tratta di impianti fissi o impianti galleggianti. Analogamente il disturbo che possono arrecare cambia molto nelle stesse fasi di cantiere tra differenti tipologie di impianti a causa, ad esempio, del rumore derivato dalla loro messa in opera che è generalmente ben più forte per quelli fissi e può disturbare i cetacei. Anche per quanto attiene gli impatti sull’avifauna è generalmente diverso avere un impianto sotto costa o al largo (discorso a parte deve essere fatto ovviamente per i migratori e relative rotte), la distanza dalla costa gioca un ruolo ancora più evidente quando si parla di impatti sui chirotteri (i pipistrelli) che generalmente non si spingono in mare aperto. Vista l’ampiezza della tematica, per maggiori dettagli si suggerisce la lettura delle dettagliate linee guida del WWF (https://www.wwf.it/uploads/WWF_Linee-Guida-Eolico-Offshore_04.11.22_AZ.pdf).

 I vantaggi economici per le comunità locali derivanti dalla diffusione delle rinnovabili nel proprio territorio possono essere molteplici, a partire dalle nuove opportunità di lavoro e di impresa che si creano connesse allo sviluppo della filiera delle FER.  E si ricorda anche come, secondo lo studio di Elettricità Futura, Enel Foundation e Althesys, se si realizzasse il Piano 2030 del settore elettrico, elaborato da Elettricità Futura (che prevede nuovi 85GW di FER entro il 2030 arrivando a coprire l’84% del mix elettrico), si avrebbero “oltre 360 miliardi di euro di benefici economici, in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, con 540.000 nuovi posti di lavoro nel settore elettrico e nella sua filiera industriale nel 2030, che si aggiungeranno ai circa 120.000 di oggi”. Si tratta di numeri di assoluto rilievo, che avrebbero ricadute evidenti anche sull’economia dell’isola. Ma, è bene ricordare che, a partire dal 1 gennaio 2025, entreranno gradualmente in vigore i prezzi zonali dell’energia, che sono influenzati da quanta energia si produce nella zona, quindi a tutto vantaggio di chi sviluppa impianti rinnovabili sul proprio territorio.

Falso! Si tratta di uno dei luoghi comuni maggiormente utilizzati da parte degli oppositori delle rinnovabili. Un recente rapporto del Politecnico di Milano (Renewable Energy Report 2024) dimostra il contrario e stima che tra fotovoltaico ed eolico, nel corso del 2023, si siano generati tra i 9 e 10 miliardi di euro, e di queste ricadute economiche, il 60-65% sia rimasto in Italia, il 20-25% in UE e solo il 15-20% in paesi extra UE. È evidente che, se già oggi, malgrado una certa dipendenza dalle tecnologie e impiantistiche cinesi, abbiamo la maggioranza di ricadute economiche positive, se iniziassimo a puntare con maggior coraggio su una filiera nazionale legata alle rinnovabili la quota dei benefici (già alta) sarebbe destinata a crescere ulteriormente.

Sono molti gli interessi che cercano di fermare le rinnovabili (in particolare fotovoltaico ed eolico) in Sardegna, così come in molte altre parti del Paese. Sicuramente al primo posto nella classifica dei più avvantaggiati dal rallentamento della transizione verso le rinnovabili si possono collocare le aziende maggiormente connesse all’uso delle fonti fossili, le quali preferiscono puntare sulla realizzazione di costose e ormai inutili infrastrutture legate al gas. Il loro interesse è quello di tenere in vita il business a cui sono storicamente legate piuttosto che cambiare radicalmente il proprio modello di business.

Le conseguenze per il territorio dipendono dal tipo di tecnologia considerata. Gli effetti sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli arrecati dalle fonti fossili o fissili (nucleare). Per gli impianti fotovoltaici le conseguenze sono praticamente irrilevanti, dal momento che si tratta di impianti che non necessitano di infrastrutture di fissaggio particolarmente impattanti ma facilmente rimovibili. Discorso potenzialmente diverso potrebbe riguardare gli impianti eolici che hanno fondazioni in cemento. Occorre ricordare che un grosso impianto conta spesso poco più di una decina di aerogeneratori, e le aziende che realizzano gli impianti sono obbligate al ripristino integrale dei luoghi, secondo le procedure approvate dall’ente autorizzante competente. Inoltre, non è detto che la dismissione dell’impianto sia la procedura migliore perché generalmente è auspicabile rimodernare gli impianti con nuove tecnologie che non modificano la potenza installata (revamping) o aumentando la potenza con nuove e più performanti turbine (repowering), una procedura che presenta vantaggi ambientali non trascurabili.

L’idrogeno in natura non è generalmente disponibile in forma molecolare libera (H2), ma si presenta solitamente legato ad altri elementi chimici, quindi per disporne bisogna produrlo, spendendo molta energia. Per questo motivo l’idrogeno è solo un vettore energetico (in pratica un modo per conservare energia al pari di una batteria) e non una fonte primaria. L’energia necessaria a produrre idrogeno si può ottenere dalle fonti fossili, da quelle rinnovabili o dal nucleare. Bisogna tener conto, che per arrivare a ottenere l’H2 occorre spendere molta più energia di quella che il gas prodotto ci potrà restituire, e questa filiera ha senso solo se si utilizza l’eccesso di produzione che deriva dalle fonti rinnovabili e pulite, ottenendo il cosiddetto idrogeno verde. In tutti gli altri casi (cioè producendolo a partire da combustibili fossili o nucleare) avremmo un idrogeno non sostenibile. È per questo che, anche a livello europeo, si è deciso di puntare sull’idrogeno verde.

No! Se si sarà in grado di sviluppare una vera filiera locale legata alla realizzazione, manutenzione, ed esercizio degli impianti rinnovabili che coinvolge manodopera e aziende del posto e se la Regione sosterrà   la transizione anche con adeguati corsi di formazione ci saranno indubbie ricadute positive sul territorio. Inoltre, l’introduzione a partire dal 1 gennaio 2025 del prezzo zonale dell’energia avvantaggerà le regioni nelle quali il costo di produzione dell’energia è più competitivo, come è, e diventerà sempre di più, quello delle FER. Infine, il recente studio del Politecnico di Milano (Renewable Energy Report 2024) ci dice che il 60-65% delle ricadute economiche legato allo sviluppo delle rinnovabili è rimasto in Italia, e questa quota potrà solo aumentare se si punta su una filiera locale con ricadute che resteranno maggiormente a livello territoriale.